domenica 26 agosto 2012
Davide Manuli, da Samuel Beckett a Kaspar Hauser
di Giuseppe Lorin - “Beket” e “La leggenda di Kaspar Hauser Re dell’Asinara” due opere cinematografiche unite da una sottile affinità Il sistema pedagogico dell’800 era basato su alcuni principi teorici come la Discriminazione (il fenomeno di apprendimento dell’organismo per dare risposte differenziate attraverso lo stimolo), la Generalizzazione (che permette agli esseri umani di fornire in presenza di stimoli simili a quello originario, risposte analoghe a quelle prodotte dallo stimolo stesso) e i Rinforzi (che assicurano il processo di apprendimento). Questi tre principi vennero usati da Jean Marc Gaspard Itard nel tentativo di insegnare a parlare al ragazzo Victor, cresciuto nei boschi in completa solitudine.
È da questi presupposti che si concretizza la T.M.C. (Terapia e Modificazione del Comportamento). La T.M.C. è un approccio deterministico fondato sul modello psicologico della devianza che si serve dell’operazionalismo e dei disegni sperimentali per la verifica delle teorie e delle procedure. Il tema delle conseguenze psicologiche che si determinano sull’uomo a causa dell’isolamento, hanno sempre affascinato gli studiosi del comportamento umano. Dall’Europa ci vengono i contributi più antichi rappresentati da notizie storiche e di cronaca sia in epoca prescientifica, sia successivamente. Da sempre i mistici europei utilizzavano l’isolamento volontario (anacoreti – ascesi, preghiera e contemplazione - gli eremiti, chiamati anche “Padri del deserto”) sia per favorire la concentrazione immaginativa sia per l’illusione di altre presenze. Nel 1700 sia Piranesi che Beccaria avevano compiuto studi sull’effetto prodotto sull’uomo a causa dell’isolamento in prigione. Nel 1830 il giurista bavarese Von Feuerbach, pubblicò un accurato resoconto sul caso del giovane Kaspar Hauser. Il giovane, figlio di persone ignote, era stato rinchiuso fin dalla primissima infanzia in un carcere, nei dintorni di Norimberga e privato di comunicazioni con il mondo esterno fino all’età di sedici anni. Anche il prof. Friedrich Daumer, che ospitò il giovane dopo la sua liberazione, pubblicò osservazioni sui processi di apprendimento del ragazzo che furono influenzati da manifestazioni emotive che lo rendevano inabile inizialmente alla percezione delle profondità visive, capacità che egli raggiunse dopo un lungo periodo di addestramento. L’interesse per questo caso fu accentuato anche dal fatto che si supponeva che il ragazzo, di origine regale, fosse stato imprigionato per volontà di Napoleone Bonaparte, in quanto figlio di Carlo di Baden e di Stefania di Beahuarnais, per escluderlo dai diritti di successione. Il sospetto dell’intrigo fu confermato dal fatto che il ragazzo fu pugnalato in un bosco cinque anni dopo la sua liberazione. Studi successivi furono pubblicati da Lucien Malson, sui “ragazzi selvaggi”, nel 1964 che prese in esame 53 casi di ragazzi cresciuti in isolamento tra cui il bambino-lupo dell’Asia, il ragazzo-scimmia di Teheran, antica capitale dell’Iran. Disturbi psichici insorgono in individui che hanno una lunga permanenza in ambienti linguisticamente estranei ed allucinazioni uditive monolaterali provocate dall’isolamento come in Giovanna D’Arco. La vita è una violenza astratta, senza senso, perché non è nulla e non corrisponde a nulla. È questa definizione la tematica sulla quale è improntata l’opera di Samuel Beckett ed il nostro regista Davide Manuli già nelle sue prime realizzazioni filmiche mette a nudo il mondo e lo rappresenta come un immenso, spento, desolato deserto entro il quale agiscono e parlano personaggi assurdi, toccati da una drammaticità fatta di grottesco e di comico, di vuoto, di silenzio, di ostinazione. Ci troviamo di fronte a personaggi dominati da una stasi inaudita, da un immobilismo senza fine, ma insieme terribilmente aggrappati alla vita, a un’attesa che li determina e condiziona. Un cinema, quello di Davide Manuli, dove l’azione è la non azione, e in cui l’immagine costituisce l’unico spiraglio per l’umana pietà. Sì, è vero, il cognome “Beket”, intendendo quello del commediografo Samuel va correttamente scritto Beckett, Samuel Beckett, ma è anche vero che volerlo scritto così, come il suono onomatopeico della parola pronunciata ci propone, rappresenta anche questo, un modo, una scelta registica voluta. E ben vengano scelte registiche di questi toni che ci riportano alla mente ben altre situazioni dove l’immagine si sposa con la cultura e la sensibilità filmica di Davide Manuli. Davide Manuli ha al suo attivo già una serie di filmati ragguardevoli e BEKET è il suo secondo lungometraggio, che fa parte di una trilogia in bianco e nero. Davide Manuli viene dal teatro e il teatro gli è rimasto nel sangue e nell’animo, come dimostra il fatto che nei suoi lavori c’è sempre spazio a scene teatrali alla Fellini o alla Pasolini o alla Ingmar Bergman. Davide Manuli nell’originalità storica del suo “Beket”, indaga sul significato profondo della vita, e di buon grado si può far riferimento al suo BEKET come il settimo sigillo del terzo millennio. Anche qui c’è la Morte, interpretata da Fabrizio Gifuni, autista della macchina col teschio da pirati e dal fatidico numero 06… zero sei, sei zero… ovvero sei niente, sei nulla e nel nulla si ritornerà! Anche qui troviamo un tavolino e due sedie di fronte al mare, liquido amniotico che dà la Vita o la Morte. Ed anche qui un gioco, una partita che non viene terminata se non con la Morte davanti ad un’aspettativa di bellezza che mai più sorgerà dalle acque come Venere. La scelta registica del bianco e nero dove si rimarca e si evidenzia fin dalle prime inquadrature, l’impronta dell’Uomo sulla terra, arida, brulla, quasi lunare è caratterizzata ed esaltata dalla scelta di una pellicola “dura” e “forte” come solo la Kodak 80 ASA b/n permette di ottenere. Dura e forte come la Vita. Riporto una frase di Roberto Vecchioni, da me incontrato recentemente: “noi sfidiamo la vita di tutti i giorni e quella dei giorni rari concessi a pochi… Perché? Perché Dio non ci ha voluti felici e con la pancia piena , sarebbe stata la nostra fine! Dio ha voluto che ci costruissimo tra il dolore ed il respiro per non addormentarci mai, per cercare sempre.” Davide Manuli compie proprio questa ricerca, la ricerca dello spirito e del significato del vivere. È sintomatica la ripetitività e l’interscambiabilità delle battute tra gli attori. Il film è interamente girato in esterni diurni e l’ottima fotografia ci rimanda a passaggi del cinema muto, dove gli stacchi tra scena e scena fa a meno delle dissolvenze ed il tremolio delle scritte indicative delle scene ci fanno rivivere emozioni di un tempo, come se si entrasse ed uscisse da uno stargate. Solo gli scenari sardi, caratterizzati dal vento di maestrale, potevano rendere così intrigante il ballo dell’Adamo sottoposto alle angherie della proto Eva. E il Signore che lo insegue è la ciliegina che Davide Manuli ci lascia quasi per ultima sulla sua torta in onore a Samuel Beckett. Come psicologo ho notato in Davide Manuli un richiamo a due temi essenziali: lo smarrimento della gioventù e la vita coniugale. In BEKET si nota lo sforzo del regista di dire la verità sulla condizione dell’Uomo. Davide Manuli prova il bisogno incoercibile di esprimere mediante il film ciò che, in maniera affatto soggettiva, si forma in qualche parte della sua coscienza. In BEKET, Davide Manuli, si avvale del fantastico (si ricordi l’arrivo dell’autobus volante e non solo) ed attua magistralmente l’unione della Poesia e della Filosofia. Il film è stato dedicato a suo figlio. D - E dopo BEKET, cosa sta preparando il nostro “enfant terrible” del nuovo cinema italiano? R - Prima di tutto vorrei poter dire che mi sento un po’ solo, e che ce ne vorrebbero di più di “enfants terribles” nel nostro paese. Non è facile lavorare sempre in totale solitudine, sia artistica che produttiva. All’estero è un poco meglio, nel senso che ogni tanto appaiono registi con un ‘mondo interiore forte’ come i Gaspar Noè, i Korine, i Reygadas, ecc. Qui da noi oggi si può dire tranquillamente che Ciprì e Maresco siano gli unici registi italiani che hanno portano un po’ di aria fresca. Per quanto riguarda i progetti a venire, sto preparando una nuova versione del “Kaspar Hauser” con Vincent Gallo in doppio ruolo e doppio protagonista. Sarà un Kaspar Hauser archetipo e poetico molto lontano dalla versione di Werner Herzog che aveva voluto riportare i fatti così come erano realmente accaduti. Il mio Hauser vuole mettere in luce il fatto che nei suoi tre anni di vita sociali, nei quali gli si era voluta dare un’educazione non è accaduto letteralmente niente di buono al ragazzo, tanto da averlo già ucciso cerebralmente ancor prima dell’assassinio. Il film si girerà interamente sull’isola dell’Asinara in Sardegna usando anche il vecchio carcere di Fornelli (41 bis) e si intitolerà “La leggenda di Kaspar Hauser Re dell’Asinara”. D - Teatro, Cinema, Televisione, Ologramma, 3Digitizer con la possibilità di far di nuovo “recitare” i divi del passato, la computermatica, la virtual vision, ed altre similari. Queste nuove tecnologie come si mettono a disposizione della fantasia dei registi del terzo millennio, sono secondo te in ausilio dell’espressione filmica? R - Si è no. Mi spiego meglio, ogni tanto qualche tentativo funziona ma spesso accade il contrario, che non funzioni e non arriva nulla allo spettatore. Dipende dai casi, ci sono bellissimi film di animazione che sono più riusciti dei film di fiction, ci sono anche tanti effetti moderni presi dai clips e dalla pubblicità che se usati col fine di raccontare meglio le storie funzionano. L’elenco che tu hai citato non deve mai essere fine a sé stesso, ma preso in considerazione solo se serve a raccontare meglio la storia. D – Samuel Beckett e Kaspar Hauser, un autore ed un personaggio enigmatico. Quanto di teatrale e di cinematografico c’è in queste due figure? R - Samuel Beckett e Kaspar Hauser sono due figure realmente esistite, e, secondo me in comune hanno il fatto di aver trasceso la loro stessa vita umana. Sono diventati più grandi di loro stessi entrando nell’immaginario collettivo suscitando poi storie, leggende e archetipi oltre a modi di essere. Dal mio punto di vista queste due figure si sono espanse in maniera così totale, a trecento sessanta gradi, che si prestano benissimo sia al teatro che al cinema, dal momento che le si può interpretare in modo sia oggettivo che soggettivo in innumerevoli versioni.
Intervista tratta da: http://www.lunico.eu 14 marzo 2010
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